
L’autore, fra varie tematiche, mette in evidenza l’attitudine delle scimmie di prevedere il futuro che si sviluppa in virtù della connessione viscerale che hanno con la Terra Madre, la foresta pluviale dell’Africa occidentale.
Le scimmie sono in grado, per la necessità di doversi nutrire, difendersi dagli elementi avversi della natura e dall’arrivo dei predatori siano su quattro zampe o striscianti, di anticipare le loro mosse, di percepire anzitempo gli avvenimenti disturbatori della quiete.
Per una di loro, un maschio di nome Uthi, l’intuito futuristico non si limita alla mera sopravvivenza del corpo ma si trasforma. Uthi scopre di avere un mondo interiore, spirituale che si accompagna a quello fisico.
Avviene l’evoluzione che lo porta più vicino al cugino-uomo.
Tutto comincia quando Uthi, Saetta nella lingua dei nativi zulù, a vent’anni, si trova con il suo branco, a doversi improvvisamente difendere da una tempesta tropicale mai vista prima.
È una bufera che abbatte alberi, che lancia fulmini e tuoni spaventevoli, saette a zig zag, gli unici bagliori che mostrano a Uthi la strada verso la sua salvezza per quanto bizzarra, colma d’interruzioni e di riprese.
La pioggia scrosciante che impedisce a Uthi di vedere il cielo, suo incontestabile punto di rifermento, la tempesta, lo inquietano.
Eppure, nonostante l’ambiente a lui connaturale gli sia al momento ostile, nonostante le rane non smettano di gracchiare a dispetto della pioggia che non riesce ad affogarle, Uthi percepisce che qualcosa di molto diverso sta per arrivare. È un pericolo che non ha ancora vissuto ma che conosce, è il fulmine, è la sberla della burrasca, è il fuoco acceso dai fulmini, è saetta come l’origine futuristica del suo nome.

Uthi, Saetta, ha una missione per se stesso che deve condurlo nell’altrove in lui per avvicinarlo al cugino uomo.
Cerca di salvarsi. Ha difficoltà. Impotente e schiavo delle forze che provengono dall’alto, cade, s’intrappola nel fango, perde flessibilità. Agilità.
Cammina su okumé secolari abbattuti, si aggrappa ai rami, s’impantana nel fango acquoso, lotta per la sopravvivenza con le sue ormai deboli forze. Stremato infine perde conoscenza.
Lo raggiunge il branco. Lo crede morto e inizia una sorta di cantilena che prende il verso di un canto funebre.
Uthi si riprende. Osserva i suoi amici con occhi diversi come se avesse visitato nuove sponde. Ciò che poc’anzi è motivo d’inquietudine diventa l’inizio di una improvvisa trasformazione sotto la spinta dell’intelligenza, dell’intuizione.
Se fin qui Uthi sopravvive grazie al suo grado di veggenza, all’abilità di pianificare il futuro, adesso comincia a vedere un mondo migliore che non sa che alberghi dentro di lui.
Ha la sua prima visione su due zampe e può andare a visitarlo.
Il grido di soddisfazione che lancia attira il branco che lo segue e lo insegue nella sua corsa a zig zag come una saetta. O sono forse le sue visioni, sempre più frequenti ma interrotte a dettare il passo?
Uthi adesso ha le idee chiare. Sa quello che vuole e come ottenerlo. Le visioni gli fanno da guida. Appare una preda, poi un terreno da caccia. Le visioni si susseguono. Sa ciò che deve prendere o scartare, dei pericoli da scansare.
Il branco pur sentendo che c’è qualcosa d’irreale in Uthi, lo segue, dopotutto porta solo vantaggi. Ispira fiducia. Il gruppo trova la gioia di vivere e della vita. Mangia, beve, dorme, copula.
Uthi, troppo preso dalle sue visioni, si astiene, ha altro su cui riflettere.
Il racconto si fa sempre più intenso.
Uthi e il branco, in seguito a nuove peripezie che hanno luogo in quella interminabile corsa, seppur interrotta per esigenze fisiologiche, si trovano infine dentro una nuova giungla come ospiti non graditi.
Ed ecco l’attacco, la lotta, la guerra e la nuova consapevolezza di Uthi di sapere già che cosa è la battaglia, di provare la sensazione di amare il conflitto, la lotta, lo scontro.
Uthi, veggente, sogna la guerra e la glorifica. La venera.
“Ritto sulla cima del mondo, scagliò la sua sfida alle stelle!”
Spinge il suo branco verso un futuro di opportunità.
Qui, l’autore chiama in causa Aldo Severino, appassionato di futurismo dei giorni nostri e attratto da tutto ciò che ha il sapore dell’innovazione, le macchine scattanti, la tecnologia, le imprese Apollo, i computer. Le moto potenti. La politica.
Eppure è lui, proprio lui che scrive dei versi con i quali esprime la sua aspirazione a ritornare a essere una scimmia antica.
Quelle sue parole sono un inno struggente, sono la denuncia della delusione che l’uomo incontra mentre cerca d’intraprendere una strada priva di mafie, di tasse, di nepotismi. Una strada che gli restituisca sé stesso solamente con l’uso dell’intelligenza, una strada che lo porti a
urlare un grido che sia un grido
Ma dove può andare un personaggio come Aldo Severino?
Aldo Severino, dentro di sé, ha annullato Firenze e l’Italia. La civiltà.
Quale incongruenza, quale scherzo del destino per un futurista desiderare, bramare di ritornare nella foresta.
Eppure succede. Ha, però, con sé, un quadretto di Giacomo Balla che gli ricorda il passato. Così è la vita. Così è la legge del contrappasso, del soffrire al contrario.
Lascio al lettore conoscere ancor più e in profondità le vicende di Aldo Severino che vive nella giungla, così come lo lascio alle avventure di Uthi.
Chissà se Uthì-saetta avrà ancora qualche visione? Se incontrerà Aldo Severino in carne e ossa o in un sogno? E il branco? Che fine fa?
L’autore ci dà comunque un indizio.
Che sia nella giungla o nel mondo degli umani, non è possibile vivere davvero senza quel lembo di cielo che esiste in ogni essere vivente sulla terra.
di Antonietta Toso

NOTA: “La scimmia futurista” è un racconto tratto da “Apocalissi fiorentine” di Carlo Menzinger di Preussenthal, presente anche sul numero monografico di IF – Insolito e Fantastico dedicato al “Futurismo“.