Monologo teatrale recitato in occasione della presentazione dell’antologia di racconti “Le Sconfinate” al Giardino delle rose il 31 maggio 2022

Il mio nome è Mary… Mary Wollstonecraft Godwin Shelley, sono nata a Londra il 30 agosto del 1797. Sono vissuta in pieno 19° secolo. Forse è evidente, dal mio abbigliamento…
Ci furono molti cambiamenti sociali in quel tempo. La schiavitù fu abolita in gran parte dell’Europa e delle Americhe. Porto un abito nero, come vedete. É un colore che mi piace, ma è anche perché sono nata già vedova, sono nata in braccio alla morte.
Mia madre è morta dandomi alla luce e io l’ho conosciuta e l’ho amata attraverso le sue opere. Una donna eccezionale mia madre, Mary Wollstonecraft. Le sue parole traboccavano dalle pagine, entravano in me, nel mio sangue. Mia madre mi ha insegnato l’orgoglio di essere donna. E il diritto di essere amata. Non mi è mancata mia madre, perché lei vive in me, nel mio spirito ribelle, indomito, quello che voi oggi chiamate femminista. Ma, ditemi, non avete una parola migliore per voi? Chiamatevi donne. Donne e basta.
Sono stata prima orfana, poi ho avuto i lutti dei miei cinque figli, infine vedova. Persi la prima figlia a Venezia. Anche il mio quinto figlio morì in Italia a San Terenzo, ancor prima di sapere se fosse un maschio o una femmina: era il 16 giugno del 1822, anno che poi si rivelò assai infausto, perché poco dopo persi anche mio marito. Ricordo il tentativo disperato di lui per fermare l’emorragia in una vasca piena di ghiaccio. Fu terribilmente crudele vedere l’acqua divenire rossa e sentire il mio corpo svuotarsi della vita.
La morte mi è stata sempre compagna, sorella, il mio tormento continuo…
Ma io volevo amare, volevo vivere. E l’ho sfidata!

Sono stata fortunata. Mio padre, William Godwin, l’unico amore a me concesso alla nascita, mi ha educata, mi ha permesso di studiare. Era un filosofo, un giornalista, un uomo illuminato con idee anarchico-comuniste. Era un grand’uomo mio padre. E poi mi ha rinnegata.
Io però lo ringrazio. Quello fu il segno del suo apprezzamento. Solo così potei capire che avevo conquistato la mia propria voce. Ricordo le sue parole:
“Libera la mente dai pensieri e dalle parole delle altre persone Mary, e trova la tua voce!”
Io l’ho trovata la mia voce, quando decisi di andarmene da casa col mio amore.
Mio padre mi rinnegò, così sono cresciuta. E sono stata amata.
Conobbi Percy Bysshe Shelley che avevo soltanto 15 anni. Era amico di mio padre, un suo discepolo.
Per lui fu meraviglioso conoscere un essere di sesso femminile tanto istruito e raffinato. Una donna come me era rara in quei tempi. Mi condusse davanti alla tomba di mia madre – ancora la morte mi chiamava – e lì ci innamorammo. Queste furono le sue parole:
“… e su questo io ti sfido adesso, Mary,
io ti sfido a fare quello che ti dice il tuo cuore
e a venire via con me
e a permetterci di trovare
aria fresca che ci riempia i polmoni
un nuovo sole che ci riscaldi il viso
e una nuova vita che valga la pena davvero di essere vissuta
insieme…”
Niente poteva arginare il nostro amore, inarrestabile, impetuoso, fuori da tutte le regole e confini, nemmeno il fatto che Percy fosse già sposato. Aveva vent’anni ed era bellissimo… Dio mio se era bello!
Provai a rifiutarlo, ma l’amore prese possesso di tutto il mio essere e fui schiava.
Percy sapeva parlare, sapeva ammaliare, un foglietto sul mio scrittorio diceva:
“Il chiarore del sole abbraccia la terra
e i raggi della luna baciano il mare
per che cosa tutta questa amorevole tenerezza
se tu non vuoi baciarmi…”
Nessuno al mondo avrebbe potuto fermarci, noi il nostro amore e la libertà.
Anche questo era un modo di sfidare la morte. Volli vivere e amare con tutta me stessa.
Ma la morte seguiva i miei passi.
Fuggimmo insieme io e Percy, vagabondi prima in Francia e poi per l’Europa. La nostra non fu soltanto una fuga d’amore, di cui fummo accusati, ma la scelta naturale di chi non ha padroni. Ci apparteniamo e saremo sempre uno dell’altra perché quello che ci unisce è eterno.
Avevamo vicino a noi gli amici che condividevano gli stessi ideali. Volevamo essere i fondatori di un nuovo mondo, un mondo libero. Lord Byron, John William Polidori e Claire Clairmont la mia sorellastra che fuggì dall’Inghilterra insieme a noi.
La mia naturale attitudine alla scrittura non si fece troppo attendere. A diciannove anni composi la prima versione del mio Frankenstein o “The Modern Prometheus”, il moderno Prometeo. La mia sfida alla morte continuava. Promoteo sfidò gli Dei donando il fuoco agli uomini. Io sfidavo la morte ridando la vita a ciò che Lei aveva preso. Lei mi toglieva un figlio dopo l’altro e io la sfidavo costruendo un uomo da pezzi di cadaveri inanimati.
Eravamo sul lago di Ginevra, forse non tutti sanno che il mostro che ho creato era così reale che mi fece compagnia durante le notti insonni trascorse nella villa di Lord Byron.
Byron e gli altri si complimentarono con me, ma fu un’altra donna a comprendere profondamente il significato della mia opera, mia sorella Claire. Mi disse:
“Mi ha spaventata a morte… Non è una storia di fantasmi, io lo so.
Non ho mai letto niente di così perfetto, nello spiegare quello che si prova a essere abbandonati.
Ho tremato per la rabbia del tuo mostro, ho desiderato la sua vendetta perché era anche la mia.
Mi chiedo quante anime proveranno compassione per la tua creatura tormentata più del dovuto.”
Oggi per voi sono famosa per aver creato un mostro, ma quanti conoscono le mie opere successive? Pochi sanno quanto io sia stata anche una veggente, una maga della scrittura. Forse una strega. Quanti di voi sanno che uno degli ultimi romanzi “The Last Man” parla di una epidemia che avrebbe decimato la popolazione? Mi meraviglio che nessuno di voi abbia notato questo, visti i tempi che state attraversando.
Forse tra qualche anno se ne parlerà di più. A me non importa.
La mia vita è stata fortunata, non crediate il contrario.
Ogni evento mi ha insegnato qualcosa, ho bevuto dal calice del dolore così tante volte. Ma la vita mi ha offerto molte consolazioni. Come mio figlio Percy Florence, l’unico che mi è rimasto, nato anche lui a Firenze (guarda Florence Nightingale) che si prende cura di me ora che la testa mi duole costantemente e le mani tremano.
La più grande consolazione però è questo! (mostra la borsetta con il cuore di Percy).
Quando il mio amato Percy nel 1822, soltanto cinque anni dopo dalla composizione del Moderno Prometeo, morì in mare, io ebbi il dono di poter conservare il suo cuore. Eccolo!
Quei giorni a San Terenzo furono tormentati. La mia anima che sapeva intuire il futuro, come vi ho detto, era inquieta. Infatti mio marito partì con la barca a vela da Livorno e non fece più ritorno.
Piansi e scrissi e piansi e scrissi, finché le lacrime non si asciugarono.
“Fosti portato via dalle onde
e ti perdesti nelle tenebre
in lontananza”
“Ora sono sola […]
Le stelle possono vedere le mie lacrime
e i venti bere i miei sospiri,
ma i miei pensieri sono un tesoro segreto
che non posso confidare a nessuno”
Questa è stata la mia vita, una vita ricca, dove ogni cosa intorno a noi bruciava di ardore, oppure faceva gelare il sangue nelle vene e accelerava il battito del cuore.
(si rivolge al marito) Anche tu hai sfidato la morte, mio amato. Questo tuo cuore – Cor Cordium come lo chiamate – non è bruciato nella pira in cui ti cremarono, sulla spiaggia di Viareggio. Ma è sopravvissuto ed è tornato da me perché io potessi prendermene cura. Byron e Trelawny me lo portarono. Ricordo che scrissi una lettera all’amica Maria Gisborne, il 15 agosto del 1822:
“Oggi – il sole splende nel cielo – essi sono andati sulla costa deserta per compiere le ultime funzioni alle loro spoglie mortali. Hunt, Lord Byron e Trelawny. Le leggi sulla quarantena non ci permisero di rimuovere i loro corpi prima – ed ora ce lo permettono solo a condizioni di cremarli… Ho visto il luogo dove ora giace – i rami di pino indicano il luogo dove la sabbia lo copre…”
Oggi conservo questo frammento delle nostre avventure, del nostro amore, che presto, temo sarà sepolto con me. Forse questa volta, è il momento di arrendersi alla morte.
Forse finalmente saprò cosa c’è al di là.
Cristina Gatti