“In fondo a un canale senza scarpe né gonna.” “Bionda dall’apparente età di venticinque anni” Un breve flash d’agenzia turbò Stefano, che si fermò un attimo e ascoltò meglio quello che diceva la radio. Tra una canzone e una pubblicità questa notizia lo colse di sorpresa. Avvertì un certo disagio, si accese la pipa e immaginò la scena. Lo colse quasi un brivido di piacere al pensiero del delitto. Un pensiero ignobile che scacciò in un attimo. Perché era turbato così ambiguamente? Il pensiero era già altrove ricordava la serata trascorsa al Blue bar dove aveva incontrato Katia. Avevano parlato, bevuto parlato e… poi non ricordava altro.
Stefano aveva ormai da qualche tempo dei vuoti di memoria, che gli creavano qualche difficoltà anche nel lavoro. In Biblioteca mentre consultava un manoscritto seicentesco, si era ritrovato in una sorta d’inestricabile labirinto mentale, quasi un incubo da cui era uscito con difficoltà. Era successo spesso che il tempo della ricerca si dilatasse e lo avvolgesse facendogli dimenticare lo scorrere delle ore. Spesso il custode della biblioteca gli diceva: dottore dobbiamo chiudere, facendolo trasalire.
Da quando viveva da solo in quella piccola città del Nord, era cambiato. Le nebbie gli davano una strana sonnolenza da cui si svegliava soltanto quando di sera andava al solito bar in cerca di compagnia. Nelle nebbie delle sue serate c’erano spesso degli incontri femminili. Erano per lo più ragazze dell’Est che con poche pretese accettavano la sua compagnia strana e, forse, affascinante.
Stefano aveva il colorito pallido dello studioso che contrastava con una buona forma fisica, coltivata negli anni giovanili, che l’assunzione di troppo alcool non aveva ancora rovinato.
Si era alzato presto quella mattina, e sorseggiando un caffè guardava la pianura che si stendeva fino all’orizzonte, cercando di pensare a quel che aveva da fare. Sentiva lo stomaco bruciare, e mentre la mente si perdeva in fantasticherie, il suono del telefono lo svegliò dal torpore. Era l’editore che gli ricordava la scadenza del suo lavoro. Stefano imprecò mentalmente. Ogni pressione lo irritava, anche se sapeva che questo era il suo lavoro, o perlomeno, l’attività che del lavoro aveva una rendita senza troppi obblighi. Non sopportava le limitazioni e un giorno all’improvviso se ne era andato da casa, aveva lasciato il lavoro al giornale ed era partito verso il Nord, dove si era fermato in una cittadina dove scriveva per un piccolo editore una serie di guide sulle bellezze turistiche della regione.
Si stava stancando delle ricerche in biblioteca, preferiva il momento della stesura delle sue note, quando cominciava a elaborare il libro. Adesso era arrivato alla fine della sua guida, forse non doveva più controllare niente nella Biblioteca Civica, anche se in quel luogo aveva trovato qualcosa di curioso, una storia di delitti avvenuti alla fine dell’Ottocento, che pur nel linguaggio controllato, lasciava intendere crudeltà e violenze. Stefano era affascinato da questa storia, e spesso invece di controllare la precisione del suo lavoro, (dietro lo stile da guida per il viaggiatore, amava fornire con esattezza e precisione le informazioni storiche e artistiche), fantasticava su quei delitti insoluti di oltre cento anni prima.
Un contadino aveva trovato in un campo un corpo scarnificato di un neonato. Aveva chiamato i carabinieri che avevano trovato un altro corpo interrato: era quello di una giovane donna. Successivamente altri due piccoli corpi erano venuti alla luce. Questo evento, come riferiva il libretto che Stefano aveva trovato, era rimasto un mistero che l’autore aveva tentato inutilmente di risolvere, ipotizzando una soluzione intrigante.
“La strage dei figli del peccato” era il titolo del libro, ma di là dall’apparente moralismo, lo scrittore ipotizzava dietro i delitti, una storia di prostituzione e di aborti all’ombra del vicino convento di monache. Attraverso relazioni dei carabinieri e indagini dell’autore s’ipotizzava che i bambini morti fossero il frutto dell’amore mercenario di una suora.
D’altra parte in questo paesino del profondo Nord Stefano aveva captato in un cattolicesimo più formale e più sentito di quanto non fosse nella sua Toscana, un‘atmosfera morbosamente più dedita all’idea di trasgressione, un vero e proprio gusto del peccato che era particolarmente estraneo al suo spirito laico. Turbato e attratto da questa lettura Stefano aveva cominciato ad avere degli strani incubi. Vedeva, quasi ogni notte, il ritrovamento dei corpi, l’interramento in piccolissime casse, e una cerimonia religiosa quasi clandestina, dove un frate gigantesco e nero alternava scarne parole di pietà a violenti anatemi contro la peccatrice che pure era “sposa di Cristo”.
Era ossessionato e attratto da quelle immagini che puntuali gli erano compagne nel suo sonno agitato e disturbato. Improvvisamente una notte si era svegliato sudato e febbricitante, provando un malessere fisico che gli aveva impedito di riprendere sonno. Poi sul far dell’alba avevano suonato alla porta, interrompendo le sue fantasticherie.
Il grande inquisitore dell’incubo, lo chiamava per nome e cognome e lo invitava a seguirlo. Turbato e incuriosito lo aveva docilmente seguito e si era ritrovato nell’ufficio della stazione dei carabinieri, dove era stato accusato per l’omicidio di Katia Brunner, una ragazza croata di venticinque anni. Stefano vacillò e dalla sua mente annebbiata il ricordo improvviso di mani insanguinate e di un volto di donna addormentata gli fece varcare la porta di quei sentieri di follia che da sempre era riuscito a fatica a non percorrere.

di Alessandro Lazzeri