La questione della poesia femminile è ampia ed affrontata in molti libri; questo contributo di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo è il primo che leggo sull’argomento e devo dire che mi ha aperto un mondo. Il libro parte da Emily Dickinson non perché non vi siano state poetesse prima (basti pensare all’immortale Saffo) ma perché è dall’Ottocento che la scrittura al femminile acquista sempre più importanza fino a raggiungere la parità con quella al maschile. Gli autori del saggio antologico spaziano nella letteratura mondiale, dall’America alla vecchia Europa, al Medioriente, fino ad arrivare al presente secolo e a poetesse ancora viventi. I versi antologizzati, talvolta accompagnati dalla versione in lingua originaria (lo spagnolo e il francese), appartengono a nomi molto noti nell’ambiente quali Ida Vitale, Anna Achmaova, Agota Kristof, Julia Hartwig e molti altri. “Mille culture” (come titola l’intervento di Rosalba De Cesare) che si incontrano e colorano la Poesia, un patrimonio prezioso che scopriamo insieme alle biografie delle autrici, dalle vite spesso brevi e travagliate. Un libro che consiglio ad un pubblico maschile e femminile, per conoscere l’altra metà della letteratura troppo a lungo ignorata.
Firenze, 4 agosto 2022
Bibliografia
De Cesare R. e Pompeo L., La poesia delle donne, Left, 2022.
Cosa rimane di un libro dopo che è stato letto, a parte la polvere che si accumula una volta riposto in una libreria? Dipende, dipende dal libro.
Ci sono libri che restano per un po’ per la bella storia che è stata raccontata, se è un saggio per le cose che abbiamo approfondito, restano per la curiosità che hanno suscitato oppure non resta niente… perché sono passati attraverso di noi come meteore, ci hanno dato momenti, sì piacevoli, ma subito dimenticati.
Sono una che si può definire una lettrice forte e tutto non posso ricordare, a volte mi capita di pensare che forse quel libro, quel romanzo l’ho letto, ma non ricordo niente o poco del contenuto…
Quando poi si tratta di un giallo, spero sempre che la soluzione arrivi in fondo, ma proprio in fondo perché altrimenti la delusione mi prende e vorrei lasciare la lettura.
Per il caso Bramard è stato diverso, giallo, soluzione finale, non del tutto scontata, anche se avevo subdorato qualcosa… ma quello che mi è rimasto di questo libro è stata la lingua.
Una lingua espressa con una scrittura per niente ridondante, una scrittura stringata, con dialoghi che devi rileggerli due volte per seguirli, dialoghi reali, con sottintesi, dialoghi di persone che si conoscono e che quindi non hanno bisogno di tante parole. Una scrittura concentrata, senza una parola superflua che porta diritta al punto.
Poi all’improvviso all’interno di questa scrittura così essenziale, spuntano alcune righe di vera poesia.
La poesia è quella forma di scrittura in cui non è necessario dire, ma far sentire. Si sente all’improvviso “l’odore di pacificata rovina”, si vede “una bellezza che richiede pazienza per essere compresa”, si ascoltano “gli addii carichi di cose taciute”.
Ci troviamo all’improvviso davanti a qualcuno che “ha i polsi che gli escono dalle maniche del giubbotto come snodi di una vecchia lampada da tecnigrafo” ed entriamo in una stanza di ospedale a “tre letti, tutti occupati da gente che non sarebbe tornata a casa”, che delicatezza in questa sola frase.
A me di questo libro è rimasta la poesia e il sottile pensiero che “sotto occhi lentissimi” fa chiedere “come può esser così leggero il male?”
Il male in una trama gialla, è dentro la storia, non ci sarebbe storia senza delitto, senza il male che scava la mente, che ha lo stesso effetto della goccia che scava la pietra.
E questa trama ha il male dentro, un male che si porta dietro come un peso dentro uno zaino da montagna.
Ma alla fine si arriva alla vetta, non senza essersi sbucciato, o ferito, toccato nel corpo e nella mente, barcamenato tra dolori e sentimenti, che lasciano il lettore pronto per un nuovo capitolo. Perché deve esserci un nuovo capitolo a questa storia di morte e di rinascita, anzi di resurrezione.
Dopo una breve pausa estiva, riprenderemo a settembre con un nuovo ciclo di temi legati all’ambiente e all’ecologia: “Siccità”, “Carestia”, “Inquinamento”, “Surriscaldamento”, “Desertificazione”, “Biodiversità”, “Sostenibilità”, “Riciclo”, “Salute”, “Equilibrio ecologico”.
Occorre pensare ai problemi del mondo prima che bussino alla nostra porta. Speriamo che riflettere e parlarne possa aiutarci a cambiare le cose, che spesso dipendono da semplici gesti quotidiani, da piccole scelte individuali.
L’acqua potabile è una risorsa fondamentale. L’acqua è alla base della vita stessa della nostra economia. In questi giorni si parla molto della carenza d’acqua. Per il prossimo WEN attendiamo allora contributi che parlino di:
“SICCITÀ”.
Le regole sono sempre le stesse:
RACCONTI E POESIE DI MAX 3.500 BATTUTE SPAZI INCLUSI
(con una certa tolleranza, accettiamo sempre testi anche attorno ai 4.000 caratteri o anche più lunghi, spazi inclusi, ma questo vuole anche essere un esercizio per sforzarci a essere sintetici e imparare a tagliare il superfluo, pertanto Vi preghiamo di cercare di rispettare questa semplice regola).
Potete inviare anche più di un contributo.
Possibilmente inviate i vostri lavori in formato word.
Se avete immagini che possono illustrare il vostro testo, potete inviarle in formato jpeg.
I testi dovranno pervenire ENTRO IL 26 AGOSTO 2022 all’indirizzo:
Sabato 3 settembre saranno pubblicati i racconti e domenica 4 settembre le poesie.
Questa è una delle numerose iniziative del GSF – Gruppo Scrittori Firenze. Per partecipare al WEN non è necessario essere soci, ma chi volesse iscriversi può farlo qui (l’abbonamento costa € 15,00) e saremo lieti di accoglierlo tra noi. I soci del GSF possono partecipare anche ai nostri progetti di antologia, far parte della giuria del Premio La Città sul Ponte, avere agevolazioni per i nostri corsi di scrittura, aderire ai gruppi di lettura e molto altro.
Anche se non è un’iniziativa del GSF, vi vorrei segnalare anche la possibilità di partecipare a un’antologia di genere fantastico che parla di viaggi spaziali, telepatia e teletrasporto: il Progetto “Dal Profondo”, che, tra le altre cose affronta, come questo ciclo di WEN, le tematiche ambientali.
Un poeta ebbro danza in Menzingerstrasse danza tra i mandorli floreggianti danza per la strada tra i fiori danza lungo la via infinita danza verso il tempio marmoreo inerpicato sull’incommensurabile danza tra le macchine irreali danza tra fantasmi silenti danza sulla strada pallida e traccia intrichi d’arcobaleno danza in Menzingerstrasse e impazzisce com’è ovvio.
Caro Prefetto, la multa che m’ha dato Non va tenuta in considerazione, Ché il mezzo mio, quello qui in questione, Sì circolava in un corso vietato,
Ma ahimè, a causa d’un tamponamento, Da un carro-attrezzi esso era trasportato E quindi la sanzione, se va data, Spetta al mezzo vettore in quel momento.
Di quanto qui asserito ne son prova Due foto della macchina infernale Che niuna differenza sostanziale Tra il vettore e la merce, lei, non trova.
Che un “vigile umano” occhio le dia E cassi ogni suo errore madornale È chieder troppo all’economia?
“Sì! Troppo!” è la risposta padronale, “Ma è barzelletta o pura follia!” Replica in coro il corpo sociale.
di Miriam Ticci
Schema metrico: endecasillabi di tre quartine a rima incrociata (ABBA-CAAC-DEED) e due terzine in terza rima (FEF-EFE)
Ho visto, affacciandomi alla finestra, il volo limpido d’un angelo mortale verso l’infinito del non essere. Ho visto il dolore muto trasformarsi in rassegnazione, mutare in rabbia, esplodere in disperazione cieca. Ho visto la vita rinunciare a se stessa e perdersi nel niente. Ho visto l’orecchio protendersi al canto delle sirene, suggestionato da cori celesti. Ho visto il tuo corpo, amica mia, perdersi in un istante di disperata follia. Ho visto il tuo corpo mutarsi in uccello fragile, il tuo vestito lieve farsi ali fugaci, inadatte al volo, ma a questo adatte, adatte a un volo estremo, che non conosce planate, che non conosce futuro. Ho visto il tuo corpo freddo contro il selciato. Se avessi conosciuto un Dio mi sarei inginocchiato davanti al suo angelo caduto ma davanti avevo solamente il tuo corpo tornato pesante.
“Sogno d’amore” di Marco Galvagni (Quaderni di poesia – Eretica Edizioni, 2022 pp.76 € 15.00) è un inno alla vita, un canzoniere destinato all’infinito sostegno della vocazione sensoriale nella mente e nell’animo. Il poeta padroneggia la materia plasmabile dell’amore, descrive una eloquente combinazione d’immagini e di sensazioni, coinvolge l’incanto delle emozioni. Marco Galvagni è profeta del desiderio. Raggiunge il talento esplicativo nel ritmo ardente delle liriche, accompagna l’intonazione della pura adesione all’infatuazione e all’intensità dell’anima, nello stupore e nel calore della complicità. L’occasione viva, incondizionata, esclusiva della poesia, sostiene l’esistenza, coglie l’istante descrittivo nei contenuti estetici del cuore, del destino, estende lo scenario naturale dell’illuminazione, attraverso il potere allusivo del mare, il confine simbolico del cielo, la lusinga degli occhi. Il poeta evoca forme e colori universali, nell’immediatezza idilliaca di carezzevoli similitudini e accattivanti metafore, nella trasposizione emblematica del linguaggio. I testi ripercorrono sentimenti suadenti e ritraggono impressioni lusinghiere nei confronti di una idealizzazione romantica, nella fantasia onirica dei paesaggi interiori. La meraviglia ricorrente del poeta esalta il fascino inatteso e amabile della seduzione, il corpo della donna e la trasmissione persuasiva del corteggiamento. Il germoglio amoroso dei versi manifesta l’origine compiuta della passione, unisce la spiritualità e la carnalità, nella sensualità dell’attesa, nella ricerca costante dell’universo di senso, nel carattere pulsionale dell’inconscio. L’eros, in Marco Galvagni, è sempre una rifrazione sincera verso la bellezza, un indicatore elegante e discreto dell’orizzonte segreto della volontà amatoria. “Sogno d’amore” coglie l’intensità vitale nell’ascolto estasiato del tempo, nella voce saggia del poeta che si affida al fascino originario del destino per decifrare la relazione ammaliante con il mondo. La silloge si compone anche di poesie scelte, riunite nella memoria affettiva, dalle tematiche intimiste, collegate allo strumento letterario di restituzione dei ricordi, nel silenzio della nostalgia. L’orientamento poetico di Marco Galvagni riconsegna alla parola penetrante e fremente l’energia assorta nel balsamo ipnotico dell’immaginazione, sublima l’entusiasmo e la delicatezza dell’ispirazione, evidenzia il beneficio della luce dell’inchiostro gettato su ogni pagina bianca della vita. Il poeta rivolge la sua infuocata e sapiente riflessione sulla natura umana nel vincolo reciproco della speranza, ammette la vulnerabilità della chimera ma continua ad assaporare il dolce spirito del rituale attraente nella necessità d’amare, nelle corde di un cammino memorabile verso la nobile esigenza del piacere. La verità rappresentativa del coinvolgimento, la risonanza intuitiva degli insegnamenti d’amore, traducono la direzione dell’approccio con le tonalità sentimentali dell’essere: “Perché l’amore, mentre la vita ci incalza, /è semplicemente un’onda alta sopra le onde.” (Pablo Neruda)
Seguono alcuni brani tratti dal volume scelti da Rita Bompadre
Il poeta
Il poeta è una nuvola innamorata, una goccia di stella scesa dal cielo, la sua parola è l’onda che sale e si rovescia, parola nel mare che sposta le navi col pensiero macchia di luna bagnata dai raggi del suo sorriso cielo impassibilmente terso che custodisce i sogni dei gabbiani: volano nella notte scendendo dalle stelle, risalgono nell’aurora bruciando il sole.
Ho visto te
Ho visto un cielo di bolle colorate di giallo grano, di verde cespuglio, di rosso papavero. Ho visto uno spazio libero per l’amore. Ho visto te.
Sogno d’amore
Donna proibita carnosa nelle lame di sole scaverai, dopo un autunno lussureggiante, con le sottili note di canto della tua voce un bagno di musica nel manto nevoso dei prati. Sono ora ombre di tomba i vecchi amori con corteccia di tartaruga, un altro nido ha il mio paesaggio femminile trepido di future delizie infuocate, altre finestre hanno gli spifferi di vento – agiterà con desiderio d’ardore le lenzuola. Sarà nostro il paesaggio, nostre saranno le calze che sovrasteranno i cirri, non un palmo della mia mano ti sarà distante – sarò la tua palma prestabilita, dea che trae origini dai miei sogni, dal mio sogno d’amore. Sarai frutto deflorato, regina che spossata si rigirerà in un turbine di passione, in un armonico saliscendi di ogni notte figlio del mio desiderio d’amarti facendoti gioire col mio vello.
Nell’aurora
Ti scorgo nuda e brillante – un aculeo di paura irrompe sotto il firmamento – un fremito nel corpo il tuo di corallo orda la spuma dell’erba. Giorni funesti per altre donne bruciano infuocati, gioventù s’è infranta, ora son sorrisi velati tramati di carezze – avranno i gemiti del fiore brunito. L’alba libera gli uccelli, parole dal cuore di marmo, rettili dagli occhi d’artigli – costruisco la catena d’un ponte invisibile come paglia trepida d’aria.
Sulla nostra pelle vestita d’amore
Potremo respirare l’odore di stelle del mare annusando il profumo di muschio della notte sulla nostra pelle vestita d’amore. Perdermi nella musica d’un arcobaleno coricati accanto sul silenzio del bagnasciuga intinto dei tuoi colori: carbone corvino come le tracce, ornato – come i nembi del cielo – da un velo d’ebano come il mare dei tuoi occhi. Volo sognante nella fitta trama dei pensieri in un’aurora di colori, accarezzato dalla luce del sole, ascoltando i miei sospiri: saranno sferzate di brezza sulla nostra pelle vestita d’amore mentre sarai nuda tra le mie braccia e avrai un sorriso di stelle di madreperla, luccicante di desideri. Nella sabbia persino gli arenicoli danzeranno di gioia, lascerà una scia di libertà l’impronta dei nostri passi.
Felice sia, chi vede gli affanni nella Natura oltraggiata compagna, chi vede i fianchi nudi alla montagna e le bestie spelate dai malanni; chi compiange una torre senza stormi, chi vede un’erba soffrir nel cemento, o rabbuiata, ne scorge il tormento, chi vede un volto alle nubi difformi; chi intravede nei vènti, l’intelletto incorpòreo che feconda le piante, chi dà un pensiero alle creature infrante pei giochi fatui del nostro diletto.
di Daniele Ambrosini
Nota dell’Autore:
Nel secondo verso della terza strofa ho posto il primo accento forte in terza sede, cosa considerata non canònica dai puristi della mètrica, ma che ritengo funzionale al ritmo e ai vocàboli qui impiegati (Si ammette il primo accento fònico nella quarta o nella sesta sìllaba).