Fui promossa e trasferita a dirigere la filiale della banca in un paese della Piana. Certi parenti che non conoscevo, di cui fino ad allora avevo ignorato l’esistenza, mi contattarono e si offersero di ospitarmi. Mio padre era perplesso, cercava di dissuadermi:
“E’ gente strana, non abbiamo avuto più rapporti da quando eravamo ragazzi…”
Pensai che se i rapporti si erano raffreddati la responsabilità (o, se preferite, la colpa) non poteva stare da una parte sola. Mi fidai di quegli sconosciuti, accettai di buon grado l’ospitalità, almeno per i primi tempi, in attesa di una buona sistemazione indipendente.
La famiglia era formata da Anna, cugina di mio padre, da suo marito Ennio, entrambi pensionati e dalla loro figlia Maria, mia coetanea, impiegata in comune. Era stata quest’ultima a contattarmi.
Nei primi tempi l’ospitalità fu gradevole, condita di piccoli e a volte anche grandi gesti di accoglienza affettuosa. Con il passare dei giorni qualcosa cominciò ad appannarsi. Anna, che chiamavo zia, insensibilmente si ritrasse, si chiuse in sé stessa, smise di svolgere i suoi compiti di padrona di casa, costringendo Maria a sobbarcarsi una gran mole di incombenze, dalle pulizie alla preparazione dei pasti e annessi. Non potevo permettere che ricadesse tutto sulle sue spalle e fui costretta a lavorare il doppio di quello che avevo immaginato. Proposi di assumere una donna per le pulizie più pesanti, l’avrei pagata io. Maria, però, non gradì. Mi spiegò che sua madre non voleva estranei in casa, specialmente quando non si sentiva bene. Aggiunse:
“Poi le passa. Faccio tutto io, tu non ti sforzare:”
Ma, naturalmente, era impossibile per me evitare di aiutarla. Ennio stava in casa pochissimo ed era sempre taciturno. La zia passava il tempo dipingendo. I suoi quadri non mi piacevano, ma non sono un critico d’arte.
I soggetti erano pochi e casalinghi: pentole, padelle, stoviglie su cui talvolta era acciambellato il gatto di casa. Una volta dipinse una vecchia sedia impagliata, anzi che cominciava a … spagliarsi! e commentò:
“Questa è proprio bella!”
In quelle pitture ripetitive e ossessive vedevo qualcosa di inquietante che non riuscivo a decifrare. Non sapevo se erano le proporzioni, i colori, le ombre a turbarmi. Coglievo il senso di una minaccia incombente, ma in modo vago.
Un giorno, tornando dal lavoro, trovai la zia impegnata in un’attività frenetica che aveva coinvolto anche gli altri due membri della famiglia. Avevano staccato dalle pareti gran parte della produzione artistica e la stavano imballando perché, sempre la zia, presso un circolo culturale di un paese vicino, aveva affittato due sale per una mostra.
Mio malgrado fui coinvolta anche in quest’impresa non facile, non semplice. Non capivo con quale criterio (se un criterio c’era) venivano appesi i quadri a quelle pareti. La zia li attaccava e li staccava anche dieci volte, cambiandoli di posto, finché la presidente del circolo venne e le disse:
“Basta! Ora comando io! Questi vanno bene così, questo invece lo mettiamo qua e quest’altro alla parete di fronte, da solo. Si apre al pubblico.”
Se aveva usato un criterio, l’aveva trovato semplicemente nella dimensione dei quadri, ma la zia si adeguò senza protestare.
I visitatori vi furono, come testimoniò il registro delle firme, tuttavia nessuno acquistò niente. Scoprii in ritardo che l’esposizione aveva un titolo, Ghefangnis, di cui non capivo il senso. Mi sembrava tedesco, mi ripromisi di cercare su un dizionario, ma decisi che non era urgente. Forse i visitatori erano venuti pensando di vedere raffigurati personaggi, oppure oggetti adeguati alla parola, se ne conoscevano il significato.
I quadri tornarono a casa, furono appesi di nuovo e la pittrice s’incupì ancora di più. Passava intere giornate a letto, si alzava appena per i pasti, perché il marito aveva proibito a noi ragazze di portarle vivande in camera.
Una mattina molto presto sentii un gran fracasso, poi urla, parole oscene.. Corsi in soggiorno. Anna, completamente nuda, stava fracassando le sue creazioni. Il pavimento era cosparso di cornici in frantumi e di frammenti di vetro dei disegni incorniciati, appunto, sotto vetro. Ennio riuscì a bloccarla, prendendole le braccia da dietro, Maria arrivò con una siringa e le fece un’iniezione.
“Non ha preso le medicine!” mi spiegò mentre lo faceva.
Fra marito e figlia la trascinarono di nuovo in camera.
Non sapendo che cosa fare, raccolsi i cartoni e le tele che non si erano sciupati, finché i due tornarono dicendo:
“Il sedativo ha fatto effetto, ora dorme. Vai a vestirti e fai colazione, altrimenti farai tardi al lavoro. Qui mettiamo a posto noi.”
Ero inquieta, a disagio. Appena arrivai in banca domandai se c’era un’agenzia che si occupasse di affittare appartamenti. Non c’era un’agenzia, ma una persona che come secondo lavoro svolgeva un servizio di sensale. Era un ometto dai modi untuosi, poco gradevoli, che mi accompagnò a visitarne due a suo giudizio adattissimi a me. Non mi piacquero. Mi consigliò di non avere fretta: avrebbe consultato alcuni proprietari.
Anna era tornata tranquilla, apatica, ma tranquilla. La trovavo a sedere sulla famosa sedia modello della pittura, intenta a osservare le sue opere come se le studiasse, specialmente quelle che si erano salvate ed erano state incorniciate di nuovo. Le fissava a lungo, poi guardava le proprie mani (il dorso, il palmo) le chiudeva a pugno, le alzava al cielo. Spostava la sedia per contemplare altri quadri e ripeteva i gesti, sempre uguali, sempre nel medesimo ordine. Non era tranquillizzante. La notte, per sicurezza, mi chiudevo a chiave nella stanza che mi avevano assegnato. L’appartamento su misura non si trovava. Pensai di accettarne uno qualunque, ma ci misi troppo a decidere.
Un pomeriggio, dopo una riunione con i collaboratori, rientrai tardi. Attraverso la porta dell’appartamento, prima ancora di girare la chiave, sentii urla che non sembravano umane. Non sapevo se era meglio tornare indietro o entrare. Decisi per questa seconda soluzione. Il dramma si stava consumando nella camera matrimoniale. Anna emetteva suoni inarticolati, poi colsi qualche frase intelligibile:
“E colpa tua…”
“Mostro!”
“Hai voluto la mia rovina…”
Non potevo capire a quali fatti si riferisse. Infine:
“Mi hai messo incinta per sposarmi e hai rovinato la ma arte! Ora me la paghi.”
Sentii un grido che non era di Anna, forse era un noo, ma non ero sicura, però spalancai la porta e mi trovai all’inferno.
Ennio era supino sul letto e Anna, a cavalcioni lo stava pugnalando con un grosso coltello da cucina. Cera sangue sulle lenzuola e sulle pareti. Presi la famosa sedia che era stata modello di pittura e la sbattei con forza sulla schiena di quella furia dannata. Cadde a terra, perse il coltello. Lo raccolsi, lo portai in camera, mi chiusi dentro e chiamai, nell’ordine, i carabinieri, l’ambulanza, il prete. Mi venne in mente il prete, perché credevo che Ennio fosse morto. Arrivarono tutti insieme, fecero una bella confusione. Era morto soltanto il gatto, squarciato da molte coltellate. Parecchie tracce di sangue erano dell’animale. Maria non si trovava.
Esauriti gli interrogatori, radunai le mie cose e presi una camera nell’unico alberghetto del posto. Il giorno dopo non andai al lavoro. Il medico mi aveva prescritto un sedativo, perciò dormii a lungo. Quando tornai in banca ebbi notizie certe.
Ennio era stato fortunato, il fendente che mirava al cuore non aveva raggiunto il bersaglio. Aveva un polmone perforato e altri guai non da poco, ma sarebbe sopravvissuto. Anna aveva due costole rotte.
“La sedia!” esclamò una delle impiegate. Ma la sedia era innocente, la colpevole ero io!
Mi dicevano: “Hai salvato capra e cavoli. Meriti un premio!”
Quale premio? Mi sentivo in colpa per aver ferito Anna, ma anche per aver sottovalutato le stranezze che aveva commesso. Quel senso di colpa mi tormenterà finché vivrò. Anna era una squilibrata, ma anch’io non avevo più l’equilibrio di una volta, la sicurezza dei miei pensieri.
Non dissi nulla di tutto ciò, domandai:
“Maria?”
“E’ salva. La madre l’aveva fatta cadere nella cisterna che si trova sotto il cortile lastricato e che per fortuna è quasi vuota. Maria sostiene di esserci caduta accidentalmente, perché era stata lasciata aperta. Ma qualcuno l’aveva richiusa quando lei era sul fondo! Vuole difendere la madre a tutti i costi.”
Cominciai a meditare sul senso della parola tedesca che Anna aveva usato per la mostra: significava prigione! La famiglia, il lavoro domestico, la cura della figlia per Anna erano una prigione che le aveva impedito di realizzarsi come artista. Era un ragionamento sensato? Che cosa aveva impedito a lei, Anna, di fuggire da quella prigione? Anche le mie riflessioni erano contorte.
A questo punto, però, avvenne qualcosa di inatteso. E’ proprio vero, come afferma l’Ariosto, che ognuno ha il suo ramo di pazzia e in molti rivelarono di averne uno robusto. Dopo che la stampa aveva dato risonanza alla vicenda, i quadri di Anna furono richiesti, trovarono estimatori e acquirenti, gente disposta a pagare bene una composizione di pentole e tegami, un cestino della carta straccia con gatto, una vecchia sedia impagliata… Quando tutti e tre gli attori del dramma si furono rimessi in sesto, Anna riprese a dipingere furiosamente e a vendere.
Tutto bene, dunque, anche meglio di prima, anche senza gatto!
No, non tutto bene: sono io che dubito del mio equilibrio mentale, ho paura di me stessa, avrei bisogno dello psichiatra. Temo che, a suo modo, la follia sia contagiosa.

di Terza Agnoletti